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«Vue d'atelier» (2023) di Fabrice Gygi. Cortesia l’artista e Galleria Chantal Crousel, Parigi. Foto Thea Giglio

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«Vue d'atelier» (2023) di Fabrice Gygi. Cortesia l’artista e Galleria Chantal Crousel, Parigi. Foto Thea Giglio

Le equivoche griglie di Gygi

L’artista ginevrino presenta sculture e tele che evocano il motivo ricorrente della sua arte, riflessione sempre aperta sull’illusoria libertà e sull’oppressione sociale

Luana De Micco

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La galleria Chantal Crousel accoglie una personale di Fabrice Gygi dal titolo «Quelques nouvelles...» allestendo nei suoi spazi, dal 3 febbraio al 16 marzo, una selezione di suoi lavori recenti. Si tratta di nuove sculture in legno e nuove tele, opere in cui è ripreso il motivo geometrico della «griglia», già presente nei suoi acquerelli dal 2017. Nel realizzare i dipinti esposti, l’autore svizzero, nato nel 1965 a Ginevra, ha esplorato nuove tecniche della pittura a olio, incrociando delle fasce di colore a 45 gradi grazie a spatole da muratore.

I colori primari predominano, e soprattutto il giallo nelle sue diverse sfumature, più chiare o più intense, creando un delicato gioco di ombre e rilievi. «Queste tele, spiega Chantal Crousel in una nota, esprimono la volontà dell’artista di astenersi da ogni forma di superfluo». Gygi si era fatto notare in Italia nel 2009 per aver rappresentato la Svizzera alla 53ma Biennale d’Arte di Venezia, dove aveva proposto un’installazione, una sorta di enorme gabbia metallica, posata al centro della Chiesa di San Stae, sul Canal Grande.

Sin dagli anni ’80, attirato dal minimalismo e dall’arte concettuale, Gygi ha dato libero sfogo alla sua curiosità e al suo spirito eclettico esplorando diversi supporti e materiali (acciaio, legno, cuoio ecc.) e dedicandosi di volta in volta alla performance, alla fotografia, all’installazione, alla scultura e al basso rilievo geometrico, all’acquerello di grande formato, fino alla produzione di gioielli e, più di recente, alla pittura.

Prima di approdare all’Ecole Supérieure d’Art Visuel di Ginevra, aveva iniziato con l’incisione (lui stesso ha detto più volte che le sue prime opere d’arte erano stati i diversi tatuaggi realizzati da solo sul suo corpo quando era adolescente). La sua formazione accademica si è poi mescolata con le influenze del movimento ultraradicale della strada e degli squatter ginevrini. Il rifiuto dell’ordine sociale, la riflessione sull’obbedienza civile e sull’ideale di libertà nelle nostre società occidentali, sono sempre state al centro della sua ricerca.

Di qui la predilezione per il motivo della griglia, ripetuto all’infinito, al tempo stesso «gabbia» e «rifugio», simbolo per eccellenza del peso opprimente della società odierna solo apparentemente libera: «Proteggere equivale a sorvegliare. Chiedere un’autorizzazione equivale a essere controllati. La libertà è un’illusione, l’ho sempre rivendicata, ma mai trovata», ha detto l’artista in occasione di una mostra che gli è stata dedicata nel 2021 al Mamco, il Museo di arte moderna e contemporanea di Ginevra, dopo aver ricevuto il Prix des arts visuels, settima edizione, della Société des Arts, antica istituzione svizzera.
 

«Vue d'atelier» (2023) di Fabrice Gygi. Cortesia l’artista e Galleria Chantal Crousel, Parigi. Foto Thea Giglio

Luana De Micco, 01 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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Le equivoche griglie di Gygi | Luana De Micco

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