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Angela Vettese

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Angela Vettese

Il caso Vettese. Perché denigrate l’Università?

Fulvio Cervini e Massimiliano Rossi replicano a una lettera di Pierluigi Panza

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Redazione GDA

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Abbiamo letto con sconcerto e incredulità la lettera di Pierluigi Panza pubblicata da «Il Giornale dell’Arte» con il titolo Elogio del docente universitario: non solo per la denigrazione diffamatoria dell’intero sistema dell’Università italiana che esso alimenta, ma perché tale affondo viene lanciato da una testata da cui ci aspetteremmo ben altro che una becera delegittimazione della formazione e della ricerca universitaria.

Un atteggiamento irresponsabile e autolesionista, tanto più in un momento in cui tutto il sistema scolastico italiano si trova in grandi difficoltà per le conseguenze della pandemia: laddove proprio formazione e ricerca dovrebbero rappresentare i motori necessari dello sviluppo civile di un Paese, e non soltanto in tempi di crisi.

La cascata di fango è generata dall’esclusione di Angela Vettese dagli idonei alla docenza di prima fascia in Storia dell’arte contemporanea, legata secondo l’autore a criteri valutativi che premiano eccessivamente le pubblicazioni scientifiche a scapito di attività giornalistiche e curatoriali che soprattutto in campo contemporaneistico risulterebbero non meno qualificanti. Doveroso controbattere che, nel valutare i candidati, la commissione si attiene a norme che è giusto discutere nelle sedi appropriate, ma che non possono venir disattese in sede concorsuale.

Le regole vigenti prevedono che sia premiata soprattutto la qualità scientifica di pubblicazioni che esprimano un orizzonte di ricerca originale, e rispondano a protocolli largamente condivisi dalla comunità accademica. Naturalmente siamo i primi a riconoscere che i requisiti di ingresso siano appiattiti sul numero di pubblicazioni in un arco temporale ristretto, ovvero su pochi articoli usciti su riviste di prestigio (la cosiddetta «fascia A»), e che vengano meno considerate altre attività importanti, a cominciare da quelle didattiche.

Ma sono le regole, e chi concorre lo sa a cominciare da Panza medesimo, che si è per l’appunto candidato negli stessi giorni in cui tuonava dalle pagine di «Il Giornale dell’Arte». Naturalmente in un concorso non basta esibire monografie e articoli di fascia A, quel che conta è quel che c’è scritto: si giudica il contenuto. Ma Panza diffama questi e tutti gli altri commissari di ogni altra tornata abilitativa, accusandoli esplicitamente di non leggere le pubblicazioni.

E il passaggio alla diffamazione gratuita (e per nulla argomentata) trasforma quel che poteva essere l’avvio di un dibattito doveroso sulle criticità del reclutamento e sui criteri stabiliti dall’Agenzia per la Valutazione della Ricerca (Anvur) in un attacco infame che neanche la politica più ignorante e populista aveva finora tentato.

Suona rivoltante la perentoria asserzione secondo cui «i due terzi di chi insegna oggi in Università è stato cooptato attraverso questo percorso di “appartenenza” a qualcuno (quando non, banalmente, per familismo, rapporti sentimentali o scambio di favori)», a cominciare dal presidente del Consiglio in carica. Insomma, Vettese sarebbe stata bocciata non perché i suoi titoli non sono stati ritenuti adeguati, ma perché tutti i concorsi sono strutturalmente truccati.

Semmai interroghiamoci seriamente sul fatto che, oltre l’abilitazione, gli Atenei italiani abbiano scarsa convenienza a reclutare docenti esterni, per cui molti fanno carriera nella stessa Università: la colpa non è infatti di Anvur o degli ignoranti strutturati, ma di una riforma miope che ha tolto di mezzo ogni incentivo al reclutamento esterno, e continua a penalizzare l’assunzione dei giovani ricercatori. Panza dice di scrivere tutto questo per esperienza personale.

L’esperienza personale di chi scrive è al contrario quella di chi ha sostenuto con non pochi sacrifici un duro percorso di studio, di ricerca e di lavoro per entrare all’Università, e sulla strada ha conosciuto e continua a conoscere centinaia di colleghi, nei più svariati settori, che associano passione didattica e civile a profili scientifici di caratura internazionale, che nessuno ha cooptato o promosso per la qualità del catering, ma di quel che hanno scritto e insegnato. E possiamo assicurare che la loro conoscenza del mondo è tanto solida quanto vissuta. Abbiamo avuto e conosciuto fior di allievi che proprio grazie alla formazione universitaria sono entrati nei musei, nelle Soprintendenze, nella scuola, nell’Università stessa, o hanno abbracciato una libera professione.

E abbiamo anche visto funzionari e direttori di museo ottenere l’abilitazione. Moltissimi docenti di ruolo sono stati docenti a contratto, a cominciare da chi scrive. Fenomeni di malgoverno, malcostume o familismo si contrastano con protocolli rigorosi e procedure trasparenti che mettano in primo piano la qualità didattica e scientifica dei docenti, non facendo mancare a un’istituzione così centrale, e a chi vi lavora, ogni minima forma di rispetto.

Sarebbe come sostenere che alla luce dei fatti di Piacenza tutti i Carabinieri sono criminali, chiedere di commissariare il Parlamento quando un onorevole viene indagato o pretendere la chiusura dei giornali che pubblicano idiozie. Noi crediamo che l’Università sia il cuore della civiltà di un Paese: per questo essa deve coltivare unita, attraverso il confronto dialettico e il concerto delle idee, un sistema di valori culturali che prima di tutto devono essere etici.

Redazione GDA, 07 settembre 2020 | © Riproduzione riservata

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