Perché il giornalismo d’arte conta: perché l'arte conta

Persino nel giornalismo d’arte si possono vedere gli effetti della provocatoria retorica del presidente Trump contro la stampa

«Ciò che rende possibile l’esercizio del potere ai totalitarismi o a qualsiasi altra forma di dittatura è la disinformazione della gente». Commento espresso da Hannah Arendt nel 1974 nel corso di un’intervista con lo scrittore francese Roger Errera e pubblicato sul numero del 26 ottobre 1978 di «The New York Review of Books»
Helen Stoilas |

Oggi (16 agosto, Ndr)  centinaia di quotidiani in tutti gli Stati Uniti pubblicano editoriali sulla retorica incendiaria che il presidente Donald Trump è solito usare contro la stampa americana, che regolarmente definisce «nemica del popolo». Il suo vetriolo è in genere indirizzato ai media di informazione, ma se ne possono vedere gli effetti persino nella relativamente protetta nicchia del giornalismo d’arte e non solo nei commenti online e nelle telefonate infuriate che occasionalmente abbiamo ricevuto da persone che non apprezzano la luce poco lusinghiera in cui gli artisti sovente dipingono il presidente. Ciò collima con l’atteggiamento apparente dello stesso Trump nei confronti della cultura: nella migliore delle ipotesi vede le arti come veicolo di autocelebrazione, nella peggiore come spreco di denaro pubblico.

Se i giornalisti hanno paura, l’autocensura inizia a essere praticata ancora
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(l'articolo integrale è disponibile nell'edizione su carta)

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